I contributo di Benedetta Tobagi e Marcello Veneziani Grande successo di pubblico per l´apertura di “Colloquia” 2011, la terza edizione dell´appuntamento culturale ideato ed organizzato dalla Fondazione Banca del Monte “Domenico Siniscalco Ceci” di Foggia e dalla Biblioteca Provinciale “Magna Capitana”.
Ospiti della prima delle tre giornate, dell´appuntamento culturale, due intellettuali di spicco: Marcello Veneziani, apprezzato giornalista e scrittore “di lungo corso”, e Benedetta Tobagi, anche lei collaboratrice di testate giornalistiche prestigiose e vincitrice di diversi premi letterari col suo primo libro, “Come mi batte forte il tuo cuore” (Einaudi, 2009).
A celebrare l´inizio della terza edizione, il Vice-Presidente della Provincia di Foggia, avv. Maria Elvira Consiglio, e il Presidente della Fondazione, avv. Francesco Andretta, che hanno sottolineato l´importanza di una iniziativa culturale che pone Foggia e il suo territorio all´attenzione nazionale per l´importanza degli ospiti e dei temi trattati.
Entrambi hanno rilevato con soddisfazione il graduale aumento di riscontri positivi per il “Festival delle idee”, sia da parte del pubblico –che ieri sera e´ affluito in gran numero: molti gli spettatori che hanno assistito all´evento in piedi-, che da parte della Stampa.
Una manifestazione, hanno rimarcato come “Colloquia”, con l´edizione in corso, sia uscito dalla fase sperimentale e punti a diventare un appuntamento fisso e di rilievo del panorama culturale italiano.
“Confini: la norma e il suo contrario” e´ la “traccia” di quest´anno, scelta per la sua attualita´ e per le molteplici chiavi di lettura che offre alla analisi e al dibattito.
A introdurre e stimolare le riflessioni degli ospiti dell´incontro iniziale, il Direttore della Biblioteca Provinciale di Foggia, Franco Mercurio, che cura anche le scelte dei temi di “Colloquia”.
Mercurio ha dato lo spunto per l´avvio dell´intervento di Benedetta Tobagi ricordando un suo articolo scritto per Repubblica nel dicembre 2009 in cui la giovane scrittrice rispondeva ad una “lettera al figlio” di Pier Luigi Celli, Direttore Generale dell´Universita´ Luiss: una lettera pessimista sullo stato della societa´ civile e sulle sorti dell´Italia, nella quale, amaramente, Celli esorta il figlio a lasciare il Paese per cercare migliori fortune all´estero. La Tobagi ha risposto con un articolo assai critico, scrivendo, tra l´altro, “Dalla penna di un padre, tanto piu´ in questo caso, considerata la posizione pubblica che ricopre, sarebbe stato bello leggere del suo impegno accademico per tentare di rinnovare la classe dirigente, ritrovare - magari - un´analisi degli ostacoli incontrati, un atto di denuncia del mondo che conosce o ha conosciuto, con fatti, dati, numeri e nomi. Parole pensate per continuare ad agire sul proprio frammento mondo, nel tentativo di renderlo, anche se in piccolo, piu´ abitabile, anche per il figlio. Parole che insegnassero al figlio il coraggio e l´ostinazione dell´impegno, anche se le circostanze ambientali sono le piu´ scoraggianti. Invece il padre, confessato il proprio personale fallimento, incita il figlio ad andarsene”. Un deciso sprone a recuperare il ruolo di padre educatore.
“La parola padre”, ha concluso Mercurio “e´ facilmente collegabile alla parola ‘patria´, cosi´ come a ‘norma´ e il compito di rendere evidente questi legami, oltre che a parlare della norma e del suo contrario, tocchera´ questa sera a Benedetta Tobagi”.
Richiamando sempre l´articolo di Repubblica, la Tobagi ha ricordato come, a livello simbolico, il padre sia l´uomo divenuto capace di accudimento e di responsabilita´: al padre spetta lavorare nel mondo e preparare il figlio a entrarvi. Anche la letteratura classica ha tramandato immagini forti di padri, come Ulisse, Enea e soprattutto Ettore, accomunati dal tratto paterno inteso come progetto di futuro e responsabilita´.
La Tobagi ha anche ricordato il saggio dello psicanalista Luigi Zoja intitolato ‘Il gesto di Ettore´ che analizza gli effetti dell´attuale ‘rarefazione del padre´, il venir meno di ‘riti di passaggio all´eta´ adulta mediati da figure paterne autorevoli´ e di ‘un modello verticale capace di innescare processi sulla responsabilita´´. Ettore, innalzando al cielo il figlio e auspicando che sia migliore del padre, rompe con la tradizione greco-antica ed occidentale che fino ad allora opponeva i padri gelosi della propria supremazia ai figli bramosi di scalzarli e sostituirli.
La Tobagi ha proseguito nella sua analisi del ruolo del padre e del rapporto coi figli, analizzando le video-clip tratte da due film del 2010: l´australiano “Animal Kingdom” di David Michôd, e il danese “In un mondo Migliore” Susanne Bier, premiato con l´Oscar come miglior film in lingua straniera nell´edizione 2011 degli Academy Awards.
Nel primo film si narra della maturazione di un ragazzo, Josh Young, che, persa la madre per overdose, di trasferisce a casa dalla nonna e degli zii, un clan di malavitosi violenti e pericolosi. L´ingresso nella vita adulta di Josh, non a caso privo del riferimento della figura paterna e della sua funzione educativa e normativa, avviene in modo violento e traumatico, attraverso un sistema di potere che non e´ norma ma affermazione gerarchica di una capacita´ “fisica” di esprimere la propria superiorita´, che dura finché il capo non viene sopraffatto o eliminato.
Il secondo lungometraggio racconta la crescita di due dodicenni in una cittadina della provincia danese: Christian, orfano di madre, da poco trasferitosi in paese col padre, medico volontario in un campo profughi in Africa, e Elias, timido e vittima di bullismo a scuola, figlio di genitori impeccabili sul lavoro ma incapaci di gestire il rapporto familiare. L´inefficacia dei padri nella trasmissione delle norme di comportamento e socializzazione, provoca un´autonoma scelta nei due ragazzi verso i comportamenti violenti per difendersi dai soprusi dei compagni nell´ambiente scolastico. Quando anche il padre viene aggredito in strada da un altro genitore manesco, Christian ed Elias elaborano un piano per punirlo ma poi, nel finale, si riscattano evitando che una ignara passante venga coinvolta nell´attentato ai danni dell´aggressore.
Con il montaggio alternato tra le scene del campo profughi in Africa e l´opulenta provincia danese, la regista suggerisce come la violenza possa nascere in ogni luogo e con qualsiasi condizione sociale. Ma c´e´ anche l´analisi della funzione normativa dei padri che, sia con un genitore modello e non violento, sia con uno censurabile, puo´ fallire di fronte all´istinto dei ragazzi nel reagire ai soprusi.
Un´analisi conclusa da Benedetta Tobagi dall´auspicio di un recupero del ruolo non facile del padre nella sua funzione metaforica di produttore di norme: una funzione delicata che richiede una costante verifica per evitare che i figli varchino il confine segnato dalla norma per perdersi in un mondo dominato dal suo contrario.
Al termine dell´intervento, Franco Mercurio ha introdotto la relazione di Marcello Veneziani, ricordando la sua laurea in filosofia, il suo impegno giornalistico pluri-decennale e la sua posizione “non tanto politico, quanto ideale”. Ha anche accennato alle sue ricerche su Platone, Plotino, Vico e Nietzsche -dei quali Veneziani ha analizzato, in particolare, il tema del ritorno. Per poi cedere la parola al giornalista biscegliese.
“Nell´affrontare il tema scelto quest´anno per il convegno”, ha esordito Veneziani, “parto dal difficile e tormentato rapporto con la norma che caratterizza da sempre i Paesi del Mediterraneo e, in particolare, l´Italia. La norma e´ sempre stata un principio cardine nelle societa´ fondate sulla cultura protestante, luterana, sulla cultura della legge, del libro, del testo scritto. La nostra e´ una cultura, invece, fondata sul rapporto interpersonale, fiduciario o autoritario, o connivente –nei casi criminali- con persone piu´ che con norme.
Viviamo da secoli e da millenni attraverso la croce e la delizia della nostra “anormalita´”, della nostra incapacita´ di ricondurci a una norma. E´ pur vero che, proprio da questa scarsa propensione a rispettare le regole, sono nate tante delle eccezionalita´ del popolo italiano nei secoli.
Il nostro atteggiamento deriva dalla convinzione che ‘normalizzare´ attenga a regimi autoritari o addirittura totalitari, in cui la ‘normalizzazione´ procede in realta´ non solo limitando la liberta´ e la creativita´ ma anche alle volte imponendo un ordine estrinseco che nulla ha a che vedere con l´armonia di un rapporto sociale, di un rapporto civile.
Dobbiamo anche considerare un´altra cosa, a proposito dell´Italia come Paese ‘normale´, che viceversa lo Statuto del nostro Paese e´ eccezionale rispetto ad una norma. Sappiamo che quasi tutte le nazioni europee sono nazioni ‘politiche´: nascono, cioe´, da una formulazione politica, da una entita´ statuale, da un rapporto dinastico consolidato nei secoli, e si trasformano in uno stato.
L´Italia, invece, e´ una ‘nazione culturale´: il nostro Paese e´ nato prima come civilta´, costume, lingua, letteratura e cultura poi, solo attraverso un processo per molti versi oscuro e controverso, il Paese e´ riuscito a conquistare una unita´ anche politica. Voglio, percio´, dire che, per molti versi, l´anormalita´, l´eccezionalita´ del nostro Paese e´ una virtu´, piuttosto che un difetto. [...]
Ci sono stati studi giuridici, politologici e culturali che hanno sottolineato proprio la sostanziale differenza tra le societa´ del nord Europa che si fondano sulla norma, e quelle del sud del continente che sono invece molto fondate sul rapporto interpersonale. L´impersonalita´ del comando e´ quello che caratterizza le societa´ del nord; viceversa, il rapporto fiduciario e personale e´ quello che caratterizza i popoli latini e mediterranei.
A livello di studi giuridici e politiche, in particolare, ci sono le due teorie: quella di Kelsen che parla del ‘normativismo´, cioe´ di fondare sulla norma il rapporto civile, e quella di Carl Schmitt, che parlava invece del ‘decisionismo´, cioe´ della necessita´, attraverso una decisione, di produrre un effetto a livello politico e civile.
Sono due culture diverse: una che discende dalla cultura cristiano-protestante, l´altra che deriva da una cultura che possiamo definire cattolica ma che e´ legata anche a culture pre-cristiane. Ed e´ un paradosso notare che la nostra civilta´, in particolare il nostro Paese, sono frutto della piu´ grande civilta´ giuridica, la civilta´ romana del diritto: cio´ nonostante, noi abbiamo questa consuetudine alla infrazione, al superamento della norma, alla trasgressione. [...]
A questo punto, dobbiamo inevitabilmente passare dall´espressione ‘norma´ a quella che la determina: l´idea del ‘confine´. Il confine e´ cio´ che determina una norma; lo sconfinamento comporta invece la trasgressione. Delirare significa proprio passare una linea, cosi´ come delirio e trasgressione. Sono tutti termini che sono legati al concetto del superamento di un confine segnato da una norma.
Tornando alla nostra realta´ civile e culturale, per decenni abbiamo vissuto all´insegna di una sorta di ‘apologia dello sconfinamento´, della trasgressione come frutto della nostra creativita´ e della liberta´ ‘sprigionata´. Un prodotto di quelle culture che vengono –a torto o a ragione- definite ‘del Sessantotto´, che ritenevano la norma fosse una espressione omogeneo alla sicurezza piccolo-borghese, ma anche perche´ si riteneva che la norma impedisse la libera e naturale espressione delle nostre energie e pulsioni vitali, che avesse un valore repressivo e coattivo della istintiva esuberanza della natura umana e della gioventu´ in particolare. Questo ha determinato, in un Paese come il nostro che aveva gia´ un rapporto ‘difficile´ con la norma, un allontanamento da norme, principi e valori condivisi. Una cultura che si e´ diffusa ampiamente nel mondo occidentale, soprattutto negli Stati Uniti dove la tormentata dialettica tra soluzioni repressive e una liberta´ senza confini ha prodotto risultati devastanti. Sono il segno di un´epoca che ha delegittimato il valore della norma, ma soprattutto quello che precede la norma, cioe´ il rispetto dell´ordine, di un aspetto ordinato, in cui si riconoscono dei fattori evolutivi di una societa´, che oggi viceversa sono considerati quasi sgradevoli: mi riferisco proprio al concetto di ordine, oggi espunto da ogni contesto; a quello di autorita´, che implica inevitabilmente un rapporto di responsabilita´ rispetto all´osservanza delle norme; a quella di educazione, che comporta la trasmissione da parte di un insegnante di un senso del limite, della misura e del confine che viene dapprima imposto e poi, dall´altra parte, compreso e accettato da chi si trova in una condizione evolutiva.
Quindi, come abbiamo visto, lo sconfinamento –la trasgressione- assume nel nostro codice di vita un significato quasi positivo salvo trasformarsi in scandalizzato orrore rispetto ai risultati che produce: prima riteniamo che la trasgressione corrisponda alla liberta´, ma se diventa pratica di vita, allora insorge un ‘neo-bigottismo di ritorno´ che la fa rifiutare.
Dal punto di vista filosofico e culturale potremmo definire la cultura dello sconfinamento come fenomeno ‘dionisiaco´. Dioniso e´ dio dell´ebbrezza, del delirio della smisuratezza, il dio che eccede attraverso forme di trasgressione di ogni genere, come il vino, l´uso delle droghe. C´e´ una forma di dionisismo spinto nella nostra societa´, una sorta di ebbrezza spinta che ha effetti sui comportamenti privati, sessuali, e da quello dei comportamenti sociali e civili.
Il rapporto tra norma e sconfinamento puo´ essere tradotto, riportandosi agli studi filosofici, al rapporto tra Apollo (dio della misura, della bellezza, della norma) e Dioniso, cui Nietzsche dedico´ un suo famoso saggio giovanile ‘La nascita della tragedia´. Ma a questo rapporto, larga parte della cultura europea -mitteleuropea in particolare- si e´ soffermata, sottolineando il rapporto di conflitto e di armonia tra l´osservanza e la trasgressione della norma: basti leggere le opere di Ka´rol Kerényi, di Elémire Zolla, o il saggio giovanile di Giorgio Colli recentemente pubblicato.
La cultura dionisiaca pervade largamente la modernita´ ma, come rilevava giustamente Nietzsche, permeava largamente anche il mondo greco.
Questa tendenza alla trasgressione e´ stata incanalata e regolamentata in tanti modi diversi, nel corso dei secoli. Lo stesso carnevale nasce con questo spirito: ‘semel in anno licet insanire´ dicevano. Anche le societa´ piu´ ordinate hanno sempre previsto un momento, una festa, o un rito che avevano questo significato liberatorio ma per consentire, poi, il ritorno all´ordine e il rispetto delle norme, delle regole che sono il cemento di una societa´.
i Romani per indicare la legittimita´ della trasgressione nei giorni dei ‘Saturnalia´.
Quando penso allo ‘sconfinamento´, ho davanti a me due immagini recenti di significato opposto.
Una e´ tragica: lo tsunami del Giappone, in cui il mare ha superato quella linea di confine in maniera drammatica e va a conquistare terre, citta´ e li travolge. Questo simboleggia la trasgressione negativa della norma: in questo caso da parte della Natura ma la cosa si trasferisce tranquillamente a livello di volonta´ umana.
Ci sono, in ogni caso, esempi positivi di ‘sconfinamento´. Pensiamo alla caduta del muro di Berlino: praticamente tutti lo considerano una cosa positiva, una crescita della societa´, la possibilita´ di abbattere un limite che comprimeva ignobilmente la liberta´ dei cittadini, ma anche l´identita´ di un popolo. E´ la vittoria della societa´ globale, senza frontiere, che abbatte i muri e consente la libera circolazione di tutto, ma anche come la ricomposizione della identita´ di una Nazione, di un popolo: quindi come il recupero di una dimensione identitaria, non come un puro sconfinamento nella globalizzazione.
Da un punto di vista psicologico, viviamo tra due ossessioni: uno e´ il desiderio di distruggersi, di varcare i limiti e infrangere le norme, il ‘cupio dissolvi´; l´altro e´ l´‘orror vacui´, la paura del vuoto, della smisuratezza, dello smarrimento dei confini. E noi siamo uomini in quanto viviamo sul crinale tra queste due posizioni. Mi sembra il tratto tipico dell´uomo, la sua natura inevitabilmente contraddittoria che si estrinseca tra questi due estremi: tra il desiderio di perdersi -‘il naufragar mi e´ dolce in questo mare´- e la paura di cadere nel nulla.
Su questo confine tra due nature dell´uomo, tutta la grande letteratura e´ stata buon testimone. Ricordiamo il mito di Ulisse, ambiguo per natura: quello omerico che torna a casa riconducendo nel suo microcosmo la sua avventura ventennale, e quello dantesco che varca le Colonne d´Ercole per ‘seguire virtute e canoscenza´ e si ritrova nella dimensione dell´illimitato.
Allora cerchiamo di arrivare alla parola chiave finora elusa, che e´ anche un concetto e un modo di essere: la liberta´. Qual e´ la lettura culturale, applicata anche alla nostra vita civile, della liberta´?
Abbiamo visto la liberta´ come un valore assoluto, a priori, a sé stante che basta a giustificare la dignita´ umana. In realta´, nel concepire la liberta´ come scopo di vita e non come mezzo, noi produciamo un imbarbarimento della liberta´. La liberta´ non puo´ essere fine di vita: e´ come l´ossigeno, ne abbiamo bisogno per vivere, ma non possiamo stabilire che lo scopo della nostra vita e´ respirare.
Allora il feticismo della liberta´, la riduzione della liberta´ ad assoluto, produce effetti devastanti.
Tre filosofi, di estrazione completamente diversa, hanno ritenuto che la cifra propria cui deve tendere l´uomo, dovesse essere la liberta´ assoluta. Tutti e tre hanno involontariamente creato le condizioni per regimi o situazioni di totale perdita della liberta´.
Un grande teorico del pensiero anarchico, Max Stirner, che credeva alla liberta´ come assoluto, e sappiamo, da Platone ad oggi, che ogni sogno di anarchia propizia il dispotismo; ogni sogno di liberta´ assoluta si traduce nel suo contrario perche´ laddove si infrangono tutte le norme, alla fine si invocano norme dure e aspre e si sconfina nell´autocrazia.
Ma pensiamo a Marx: anche lui riteneva che il fine ultimo fosse la liberta´ assoluta e sappiamo che il marxismo tradotto in pratica e in realta´ politica ha prodotto i regimi totalitari del ‘900.
Giovanni Gentile, il grande filosofo italiano, che riteneva che autorita´ e liberta´ dovessero coincidere e ha, di fatto, giustificato un regime autoritario nel nome della liberta´ assoluta: quando aderisce al fascismo, Gentile dice che vede in esso la realizzazione del liberalismo.
Questo vuol dire che tutti i sogni di liberta´ assoluta sono sogni di perdita della liberta´.
Allora bisogna capire che la liberta´ esiste se e´ commisurata e ha delle norme entro cui agire: invece, ha bisogno di essere garantita all´interno di un sistema che ne garantisce la concreta esplicazione.
La liberta´ ha bisogno di riconoscere che chi ci e´ ha fianco ha pari diritto alla sua parte di liberta´.
Viviamo appieno la dimensione della liberta´ se accettiamo che sopra di noi ci sia qualcosa che ci limita: l´autorita´, la tradizione la legge la regola; in basso c´e´ il bisogno, la natura; a fianco c´e´ il legame sociale, il rapporto con gli altri.; dentro di noi il senso della misura. Perche´ la smisuratezza produce il suo contrario. Allora, la liberta´ ha bisogno di essere commisurata, rapportata alla realta´ che viviamo, altrimenti si perde.
Da qui la necessita´ di una dialettica tra liberta´ e norma. Il confine non e´ soltanto il ‘carcere´ della nostra limitata esperienza di vita, ma e´ la garanzia di cio´ che siamo
Qui rientra anche quel difficile rapporto che esiste tra dimensione pubblica e privata.
Viviamo da alcuni decenni, una cultura dominante ci insegna che tutto cio´ che atteneva alle nostre convinzioni pubbliche –la fede religiosa, la cultura, il legame con la propria citta´ e Nazione- deve essere frutto di una scelta privata e personale: se hai delle tue idee, tienile per te e coltivale nella tua intimita´. Viceversa, tutto cio´ che atteneva alla sfera privata –la sessualita´, la vita privata, l´intimita´- diventa un fatto pubblico, anche attraverso un mezzo invasivo come la televisione. Cio´ che un tempo era privato diventa pubblico e viceversa.
C´e´ un rovesciamento della norma e della sua violazione, c´e´ un rovesciamento anche del pubblico e del privato.
Questo perche´ alla liberta´ non si da´ quella misura storica che e´ determinata dal rapporto con la realta´:quando la liberta´ la si sogna come assoluta, quando si sognano le societa´ perfette, le utopie dell´uomo perfetto, quando non si vogliono piu´ avere norme visibili per determinare un limite ai nostri rapporti, allora si sconfina nel perfettismo, nelle societa´ ideali perfette che sacrificano le societa´ reali e gli uomini concreti nel nome di questo progetto utopistico.
Bisogna, al contrario, tornare alla realta´: capire il rapporto che abbiamo con il confine. Perche´ non esiste solo un confine spaziale ma anche un confine temporale. Dopo l´innalzamento del muro di Berlino, un importante scrittore tedesco, Ernst Junger scrisse un saggio “Al muro del tempo”, nel quale esprimeva il concetto che, accanto ai confini dei muri ci sono quelli determinati dal tempo. La nostra societa´ che abbatte i muri spaziali, erige confini temporali: ad esempio, non consente un rapporto diretto e continuo con il nostro passato; viviamo di un eterno presente. Abbiamo smesso di pensare al passato, alla tradizione, al rapporto coi nostri padri e avi. Siamo diventati cosi´ solo figli e prodotti del nostro tempo, perdendo la nostra dimensione storica. E questa e´ una prigione, non liberta´. Essere solo figli del proprio presente, non avere la dimensione della storia, non capire che veniamo da lontano e dobbiamo produrre ancora storia cioe´ avere avvenire, produce un rimpicciolimento della dimensione umana, un´alienazione della nostra natura di uomini; non abbiamo piu´ memoria né speranza, e quindi capacita´ di rapportarci al passato o al futuro.
Eliot, il grande poeta, diceva che oltre al provincialismo, che alle volte ci chiude in un luogo, c´e´ anche quello del tempo: quello di chi si considera solo figlio del proprio tempo e non e´ piu´ capace di rapportarsi alle generazioni precedenti, ne sara´ capace di farlo con coloro che verranno. Questo produce una perdita di senso nella nostra vita.
Per giungere ad una conclusione, penso che non si debba porre solo il problema di oltrepassare i confini e le norme, ma anche il problema di approfondire i rapporti, scavare a fondo, di guardare la nostra dimensione verticale. Alle volte ci poniamo barriere che riguardano il rapporto con la nostra interiorita´, con cio´ che puo´ dare senso alla nostra vita; ci limitiamo soltanto a ‘spostare i confini´ territoriali. Ma ci sono altri confini che attengono alla nostra vita. Allora, prima di riprendere i rapporti che abbiamo con la norma, con i confini, le limitazioni, le barriere, dobbiamo riprendere un discorso di fondazione della nostra liberta´ attraverso il rapporto con la sua misura, attraverso il rapporto con cio´ che la delimita, con cio´ che la protegge. Il titolo del mio ultimo libro ‘Amor fati´, vuol dire proprio accettazione del confine, accettazione dei propri limiti, di cio´ che siamo, della nostra vita. Viviamo nel sogno continuo di dover eccedere, di dover immaginare un altro corpo, un´altra dimensione; usiamo tutti i mezzi, tecnologici, scientifici, farmaceutici, sanitari, per eccedere dalla nostra condizione. Rifiutiamo, alle volte, la nostra realta´: e´ il segno di un rapporto infelice con la nostra condizione umana.
‘Amor Fati´ dice che bisogna amare il proprio destino, accettare i propri limiti, cercare di migliorare laddove sia possibile, ma partire da un´accettazione della realta´. Non siamo onnipotenti, non possiamo permetterci di varcare ogni norma: abbiamo delle delimitazioni.
Per far questo, dobbiamo ridare significato a tutto cio´ che prima determinava la cultura che produce la norma; primo fra tutti, l´educazione. Dobbiamo ri-educarci. Abbiamo il compito di educare le generazioni che verranno, non solo di farle crescere nel benessere; non solo di dare loro la liberta´ di scegliere: abbiamo la responsabilita´, dura, di educarle.
Tutto cio´ che noi vediamo come la perdita della norma, in realta´, puo´ tradursi in senso positivo come la conquista di un processo educativo,
Dobbiamo riprendere un´educazione culturale e civile del nostro Paese, dei nostri contemporanei perche´ e´ l´unico modo per ripartire senza avere solo un rapporto asfissiante o ipocrita con la norma e il normativismo, accettando la realta´ di quello che siamo, le differenze e le imperfezioni di cui e´ fatta la nostra vita. Dobbiamo partire dal principio che e´ possibile educare: l´educazione comporta una dialettica incessante tra liberta´ e autorita´, non possiamo rinunciare né all´una né all´altra e non possiamo difendere la norma se non ri-ammettiamo il significato costitutivo dell´ordine. L´ordine e´ la capacita´ di connetterci al mondo, di organizzarci con il mondo. Abbiamo bisogno di vivere in un ordine. Il disordine non produce solo creativita´, ma dispersione, perdita, morte.
La liberta´ va vista in questa relazione: con l´ordine da una parte, con l´autorita´ e il processo educativo dall´altra.
Credo che questo sia l´unico modo per rispondere alla necessita´ della norma senza perdere kl senso della realta´ e cio´ che ci rende, inevitabilmente, cio´ che noi siamo”.